Pubblicato su SUDLOOK
“Se vuole, le consiglio un prosecco dell’Etna. E’ buonissimo”. A parlare è un dipendente di un’enoteca catanese, – per rispetto delle professionalità di questo settore – non faremo il nome dell’esercizio commerciale.
Il prosecco dell’Etna -purtroppo- non viene solo proposto, come nel caso citato prima, spesso viene anche richiesto a tavola da diversi clienti per voler iniziare o accompagnare un incontro. “È quando ti chiedono ci porti un prosecco, dell’Etna per favore che nel mondo un sommelier muore” ci racconta Alessia, sommelier in servizio in un evento di vini.
La cosa peggiore – se mai ce ne possa essere altro sull’argomento – è il prosecco in versione mini: il prosecchino! Ino di nome, in quanto occorre mantenere inalterata la bottiglia e il formato. Un modo carino per chiamare il prosecco dell’Etna, o siciliano o qualsiasi altro spumante o “bolla” in generale: basta avere un vino con le bollicine per farlo diventare prosecco, senza operare alcun miracolo.
Vi sveliamo un segreto: il Prosecco dell’Etna non esiste!
Se davanti a qualcuno che ha una minima conoscenza del mondo del vino volete evitare di passare per capre di sgarbiana memoria, fate tesoro di questo segreto svelato.
Ogni zona di Italia ha degli areali di produzione vitinicola – siamo una grande nazione sulla produzione di vino – con disciplinari di produzione da seguire.
Sull’Etna, uno delle zone di produzione più apprezzate dai winelovers a livello mondiale, si coltivano diversi vitigni. Quelli nostri -trattando le varietà autoctone- che per disciplinare danno vita ai vini dell’Etna Doc sono il Nerello mascalese (vitigno a bacca rossa usato per un minimo dell’80% per fare l’ Etna Rosso o Rosato Doc) il Nerello cappuccio o mantellato (vitigno a bacca rossa usato per un massimo del 20% nell’Etna rosso), sua maestà il Carricante (vitigno a bacca bianca usato per un minimo del 60% per fare l’Etna bianco) e il Catarratto (vitigno a bacca bianca usato per un massimo del 40% nell’Etna bianco). Altre varietà come la Minnella, la Coda di volpe – ad esempio – vengono utilizzati in piccole percentuali da alcuni produttori.
La nostra però non è certo una lezione di viticultura o enologia, e non vogliamo appesantirvi di informazioni. Ne trattare cosa si muove nell’areale che da Santa Maria di Licodia a Randazzo, zona per la produzione dell’Etna Doc, riscuote sempre più successo a livello mondiale. Ci saranno altre occasioni. Vogliamo piuttosto partire dal segreto svelato (il prosecco dell’Etna non esiste!) per dirvi che la spumantizzazione sull’Etna è iniziata alla fine del XIX secolo, quando il Barone Spitaleri diete vita allo Champagne dell’Etna.
La spumantizzazione ritorna ad essere apprezzata sul vulcano grazie all’azienda Murgo che a cavallo degli ottanta ed inizio dei novanta propone tra le etiche gli Spumanti sull’Etna.
Lo Spumante (e non prosecco!) Etna Doc – per disciplinare – è prodotto per il 60% da uve di Nerello Mascalese con un processo di spumantizzazione “metodo classico” ed una permanenza sui lieviti di almeno 18 mesi. Sull’Etna sono diverse le aziende che – ad oggi – producono spumanti: non solo Spumante Etna Doc (quindi che seguono il disciplinare), ma si spumantizza oltre al Nerello Mascalese anche il Carricante, il Catarratto, il Pinot nero, con permanenza sui lieviti variabile (dai 18 ai 60 mesi) per i metodo classico.
Un mondo da valorizzare e scoprire quello della produzione sull’Etna e portare ‘al centro’ della quotidianità catanese. Almeno per due fattori: valorizzazione del territorio e delle aziende, ma anche per l’indotto economico che politiche di valorizzazione potrebbero sviluppare creando la giusta sinergia tra le amministrazioni locali, le associazioni di categorie e i centri di cultura e formazione. Un treno da non lasciarsi scappare in cui tutti – dai ristoratori ai consumatori – potremmo trarre dei benefici interessanti.